Il ministero dell’Interno non avrebbe potuto chiudere i progetti d’accoglienza Sprar nel borgo jonico. I giudici del Consiglio di Stato lo hanno ribadito solennemente respingendo il ricorso presentato dal Viminale.
«Volevano distruggere Riace e il messaggio politico-evangelico della nostra esperienza amministrativa e ci sono riusciti. Queste pronunce non fanno altro che aumentare la mia amarezza». A casa di Mimmo Lucano non si stappano bottiglie per le notizie giudiziarie provenienti da Roma. E dire che motivi ce ne sarebbero per brindare. Ma è la rabbia a prevalere nell’animo dell’ex sindaco di Riace. Il ministero dell’Interno non avrebbe potuto chiudere i progetti d’accoglienza Sprar nel borgo jonico. I giudici del Consiglio di Stato lo hanno ribadito solennemente respingendo il ricorso presentato dal Viminale dopo che, lo scorso anno, il Tar di Reggio Calabria aveva messo nero su bianco l’illegittimità di quella decisione.
In via preliminare manca l’invio al comune di una diffida vera e propria, tant’è vero che le criticità evidenziate dal ministero non avevano impedito la proroga del progetto. Il Viminale non avrebbe contestato puntualmente le irregolarità rilevate, né avrebbe assegnato un termine entro cui risolverle. E nonostante questo, ad ottobre 2018, pochi giorni dopo l’arresto dell’allora sindaco, il ministero dell’Interno, diretto da Salvini, aveva disposto la deportazione dei migranti. E riportando il paese di nuovo allo spopolamento.
A fatica ora Lucano e i suoi fedelissimi stanno provando a far rinascere il borgo nonostante l’ostracismo del nuovo sindaco, decaduto in quanto ineleggibile, ma ancora al suo posto, in attesa dell’appello. «Era tutto già scritto – racconta a il manifesto – una precisa strategia volta a distruggere la mia persona, quella utopica idea di Riace che diventava realtà. Partire, agire, essere concreti, erano state le nostre linee guida. Volevamo che i sogni si realizzassero e ci siamo riusciti. Ma questo dava fastidio perché ribaltava la loro narrazione tossica sulle migrazioni. Hanno demonizzato il progetto Sprar con delle assurde penalità e poi, non paghi, si sono accaniti contro la mia persona. Quello di oggi è solo un piccolo successo burocratico che non mi ripaga delle umiliazioni subite. Per usare le parole di un grande prete operaio, come monsignor Bregantini (l’attuale vescovo di Campobasso, ndr), a Riace c’è stato un tentativo di un processo di evangelizzazione della società».
Lucano stempera a fatica la tensione. Tra qualche settimana si deciderà la sua personale sorte giudiziaria. «Il 3 luglio i giudici di Locri decideranno se condannarmi o assolvermi per quella incredibile vicenda delle carte d’identità».
È stato citato in giudizio (dallo stesso pm della prima inchiesta che gli costò l’arresto) e dovrà difendersi dal reato di falso davanti al giudice monocratico. La vicenda trae origine dall’inchiesta sulla presunta falsificazione dei documenti d’identità per due immigrati eritrei, una madre e il suo bimbo, ospiti del programma di accoglienza ma senza permesso di soggiorno. «La carta d’identità era legata ad esigenze sanitarie – si accalora – e per me è prioritario rispettare la dignità umana di un bambino di pochi mesi. È una contestazione molto debole sul piano giuridico».
Tornando al pronunciamento dei magistrati di Palazzo Spada. La critica dei giudici è forte: il Viminale si sarebbe limitato a vuoti formalismi procedimentali, senza rispettare «le forme che esso stesso, peraltro, si era dato», prorogando in un primo momento il progetto e poi decidendo, per le stesse ragioni, di cassarlo. «L’autorizzazione alla prosecuzione del progetto poteva, dunque, trovare spiegazione solo con la massima benevolenza dell’amministrazione che ha anche messo a disposizione risorse umane e finanziarie». Insomma, «i riconosciuti ed innegabili meriti del “sistema Riace”», secondo i giudici, avrebbero «giocato un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità», che non potevano essere recuperate a posteriori, «per motivare la revoca, se non rinnovando per intero il procedimento».
Alla luce della documentazione, insomma, «il progetto avrebbe dovuto essere eventualmente chiuso alla scadenza naturale». E «che il ‘modello Riace’ fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione – si legge – è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti». Insomma, quell’atto non aveva ragion d’essere.
Lucano comunque non demorde. «L’odio razziale di Salvini è lo stesso dei suprematisti americani – conclude – dobbiamo tutti trarre una lezione dai Black lives matter. E reagire anche qui in Italia».
Silvio Messinetti
Il manifesto
9 giugno 2020